05 aprile 2012

Fwd: Paolo Rumiz-Quella notte di neve e stelle in cui cominciò l´assedio di Sarajevo

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Oggetto: Fw: Paolo Rumiz-Quella notte di neve e stelle in cui cominciò l´assedio di Sarajevo

 
 
Quella notte di neve e stelle in cui cominciò l´assedio

Fonte: PAOLO RUMIZ - la Repubblica

Giovedì 05 Aprile 2012

Iniziava non una guerra, ma un imbroglio voluto da una cricca di politici ladri

Ricordo molto bene quella sera, vent´anni fa. C´erano molte stelle e molta neve intorno.

Giorni prima s´era sparato qualche colpo in aria, Sarajevo era inquieta, ma in un conflitto

ancora non credeva. Era un´eventualità irreale, come se Roma potesse dichiarare guerra a

Bologna. Con la presa di Vukovar in Croazia, la fiammata sembrava essersi esaurita, l´Europa

aveva benedetto l´indipendenza della Bosnia, s´era fatta festa, e quelle raffiche sui monti erano

sembrate la solita, vanagloriosa baraonda balcanica. Molti giornalisti se n´erano andati, il fiume

spumeggiava, i caffè funzionavano, la primavera era nell´aria. Solo pochi s´erano resi conto che

le alture brulicavano di armati, postazioni da mortaio, nidi di cecchini, trincee. La massa ancora

ignorava che l´esercito jugoslavo si era concentrato in Bosnia per finire il suo lavoro. La città era

piombata in uno stato di strana cecità collettiva. Quella sera andai dunque a cena con la collega

bosniaca Azra Nuhefendic sopra il quartiere di Vraca, nella taverna di un suo conoscente, il

serbo Mladen Novakovic, che ci accolse con cordialità. Mangiammo e bevemmo, la città

luccicava sotto di noi. Ma era tutto molto strano. La locanda era popolata di soli serbi maschi.

Era come se le etnie si fossero spartite in base all´altimetria. Una massa di serbi era salita in

alto, lasciando le loro case sul fiume, mentre i cosiddetti musulmani (tali di cultura più che di

fede) erano rimasti in basso, ignari nella posizione più indifendibile. Poi squillò il telefono,

Mladen rispose, parlò concitatamente, e l´aria cambiò. Noi non lo sapevamo, ma era arrivato

l´ordine, l´assedio iniziava. Novakovic parlottò con gli altri serbi che si dispersero, poi si offrì di

accompagnare noi due in città. Dissi che no, la notte era bella, volevo scendere a piedi, ma lui

insistette che era meglio così. Guidò velocissimo fino oltre il fiume, ci sbarcò e tornò

sgommando sul monte.

Il giorno dopo arrivarono i primi colpi di mortaio, e Sarajevo rimase ancora paralizzata nella sua

incredulità. Alcuni ponti divennero intransitabili a causa dei cecchini e in pochi giorni il fronte

che avrebbe diviso per tre anni la città divenne fatto compiuto, ma ancora ci fu chi scommise su

"un fuoco di paglia". Solo a maggio, quando arrivarono notizie di stragi da altre zone,

cominciammo a capire che c´era la guerra, constatammo che Mladen era diventato il nemico di

Azra per un ordine venuto dall´alto, e ci adeguammo a cose ovvie come camminare rasente ai

muri e dormire sui lati sicuri delle case. Capimmo soprattutto che l´assedio era stato preparato

a lungo, e finalmente rileggemmo nel modo giusto i mille segnali della vigilia. E quando a luglio

andai a Belgrado, ebbi l´oscena conferma. I mercatini dell´usato erano pieni di cose bosniache.

Persino i settimanali rigurgitavano di inserzioni su automobili, stanze da bagno, bestiame,

televisori. Un improvviso fiume di refurtiva macchiata di sangue arrivava dalla Bosnia ed ecco

che la guerra si svelava per quello che era: una scusa per rendere possibile il saccheggio e

assolvere patriotticamente l´assassinio. La banalità assoluta del male.

Ecco perché non l´avevamo sentita arrivare, la guerra. Non c´entravano niente la nazione, la

religione, il sacro suolo. Lo scontro etnico e tribale era una fandonia per i giornali stranieri. La

verità era che un´accolita di politici-ladri, di fronte alla bancarotta della Jugoslavia, aveva intuito

di poter trovare nella guerra un´occasione unica: evitare la resa dei conti e persino di rubare di

più, raschiare il barile fino in fondo. La pluralità culturale della Bosnia era perfetta allo scopo. Un

ottimo materiale incendiario. Ero davanti a un´evidenza sconvolgente, un teorema del

comportamento umano. Quanto accadeva nei Balcani non era una cosa balcanica, ma

europea. Era la dimostrazione che qualsiasi potere cerca di trasformare in scontro etnico quello

che altrimenti sarebbe un confronto politico-sociale che lo spazzerebbe via. Conclusione:

avevano vinto i ladri. E difatti la guerra è finita solo quando non c´è stato più da rubare.

Per l´ultimo Bajram, il natale musulmano, sono tornato a Sarajevo - la mia città dell´anima - e

ho provato a chiedere alla gente chi è oggi il "nemico". Nessuno ha evocato gli assedianti di ieri,

i serbi. Uno ha detto: «Il nemico è la mafia al governo, i figli dei borsaneristi». Un altro: «La

burocrazia parassitaria, passata allegramente dal comunismo al nazionalismo e poi al

qualunquismo affarista». Il terzo ha risposto «Una banda di sanguisughe che taglieggia anche

gli aiuti umanitari, fottendosene delle vedove di guerra e dei reduci». Su una cosa erano tutti

d´accordo: il paese è allo stremo come se la guerra fosse finita ieri, e non nel 1995. E hanno

concluso: «Voi non avete capito niente vent´anni fa e non capite niente oggi. Questa

celebrazione non ha senso, serve al vostro pietismo, e a perpetuare l´idea di una Bosnia che

non esiste più». Tutto come prima eccetto il sangue. Già, non può finire una guerra che non è

mai stata guerra, ma imbroglio.

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