06 febbraio 2010

Adriano Sofri parla di Marek Edelman

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Giovedì 21 gennaio 2010 ore 18 alle Oblate Firenze presentazione di “C’era l’amore nel ghetto” di Marek Edelman
Con Adriano Sofri, Wlodek Goldkorn e la traduttrice Ryba Ludmila


Dalla prefazione a “C’era l’amore nel ghetto” di Marek Edelman, Sellerio -la memoria pp.180 di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri .

Marek Edelman è morto la sera del 2 ottobre 2009 a Varsavia, all’età di 90 anni. È stato lucido e attivo fino alla morte. Non è un modo di dire. Si preparava a venire in Italia. Abbiamo dovuto aggiungere queste righe iniziali quando il libro era già composto. E abbiamo deciso di lasciare le righe seguenti così com’erano, senza correggere il modo presente in cui parliamo di lui. Non per echeggiare gli slogan consolatori, «Marek è vivo», di cui avrebbe riso. Marek è morto. Ma passerà molto tempo prima che ci abituiamo alla sua assenza. Era l’ultimo, per così dire. È morto il guardiano della memoria. Tuttavia bisogna che siano altri a custodirla, come sono capaci.
C’è uno spreco e un cattivo uso delle parole e delle analogie, quando si parla della Shoah: un impiego della retorica che privilegia la metafora a scapito della vita e delle vite. Si dimentica, o si ignora, che anche nel ghetto ci si innamorava, si litigava, si faceva politica, si sognava. Si sperava in un avvenire, addirittura. Ecco: il ghetto che cos’era? L’anticamera della morte? Certo, anche. Ma era, in condizioni davvero disumane, anche una vita supplementare, una prosecuzione della vita che gli ebrei conducevano prima della guerra. E a sua volta quella vita non era stata il preludio della catastrofe, e non può esservi ridotta. Tra le due guerre mondiali, in Polonia esistevano e fiorivano teatri yiddish; si producevano – assieme agli studios di Hollywood – film sonori in yiddish; c’erano reti di biblioteche, case editrici, associazioni sportive, sindacati, partiti politici. C’era una nazione di tre milioni di persone che parlava, pensava, scriveva, sognava, faceva politica e progettava il futuro in yiddish.
Ogni anno, da decenni, il 19 aprile a mezzogiorno, Marek Edelman porta un mazzetto di narcisi gialli ai suoi amici a ai suoi compagni, alle donne e agli uomini con cui ha combattuto nel ghetto di Varsavia. C’è una piazza enorme, disadorna, a Varsavia, una piazza dove sorge quello che ufficialmente si chiama il Monumento agli eroi dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia: scolpito nella pietra che era stata portata lì per erigere un obelisco in onore di Hitler. Edelman, classe 1919, medico cardiologo, attivista dell’opposizione democratica polacca negli anni 1970, militante di Solidarnos´c´ negli ’80, impegnato in difesa di Sarajevo negli anni ’90, uno dei pochi superstiti di quell’ebraismo destinato ormai a diventare oggetto museale, o materia di ricerche dotte. La storia è finita così, e non è colpa di nessuno, se non di Hitler, dei nazisti e dei loro volenterosi complici. Ma la biografia di Marek Edelman contraddice quanti insistano a pensare che la storia doveva finire così, che l’ebraismo polacco (ed europeo, o quello diasporico in genere) non avesse alcuna via di scampo, perché destinato a perire, incapace di far fronte alle sfide della modernità.
Qui Marek Edelman racconta che cosa successe a questo mondo, a un pezzo di questa nazione, una volta finito nel ghetto. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas «come le pecore al macello». Cercarono invece in ogni modo, ciascuno a suo modo, di continuare il filo della vita di prima. Ogni giorno di nuovo affrontarono cruciali scelte politiche, esistenziali. E organizzarono la resistenza: che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. L’insurrezione durò dal 19 aprile al 10 maggio 1943! («Armata»: vuol dire un arsenale di una decina di pistole, altrettante bombe a mano, e alcune decine di chili di esplosivo, contro la potenza militare nazista!).[…]

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