15 febbraio 2010

Lanciata in orbita la prima navicella fiorentina!

11 febbraio 2010

Il mio fraterno amico Sandro da Spalato mi invia questo articolo di Paolo Rumiz dal Piccolo di Trieste che invito molto caldamente a leggere.

Sandro Damiani 11 febbraio alle ore 12.53

Io ti suggerisco il pezzo di Paolo Rumiz (Il Piccolo) di Trieste:


Foibe e Risiera, la strana ”simmetria” per pacificare la memoria sugli ex confini
di Paolo Rumiz

Per arrivare a una pacificazione non è sufficiente onorare soltanto i morti delle Foibe e della Risiera
A due settimane dal Giorno della Memoria, il 10 febbraio ritorna il Giorno del Ricordo dedicato agli esuli d’Istria e Dalmazia e ai morti nelle foibe. Torna con la sua carica di emozioni forti e il suo seguito di dispetti diplomatici fra Italia, Slovenia e Croazia. Ogni volta la stessa storia. Quasi un tormentone a orologeria. 

Come noto, per metterci una pietra sopra, Roma chiede a Lubiana e Zagabria di concordare un atto simbolico di omaggio ai due luoghi contrapposti della barbarie: le foibe appunto, e la Risiera di Trieste, unico forno crematorio nazista in terra italiana. Un doppio atto catartico, si afferma. Una contrizione equanime e simmetrica, come i due piatti di una bilancia.

Ma è qui il punto. So bene che molti non saranno d’accordo, ma a mio avviso quella tra le foibe e il Lager triestino è una falsa simmetria. Mi spiego. Noi chiediamo ai nostri vicini di riconoscere una colpa loro, e in cambio offriamo di dolerci di una colpa niente affatto nostra. La Risiera è un simbolo pesante. Ma ha un difetto: venne gestita da tedeschi, e Trieste era territorio del Reich.

È difficile che funzioni. È come saldare un debito con moneta altrui. Perché non si cerca altro? Strano che l’Italia antifascista non ci pensi. Di luoghi alternativi ce n’è d’avanzo. Per esempio l’infame e italianissimo campo di concentramento di Gonars in Friuli, dove civili sloveni e croati furono fatti morire di fame; o il villaggio di Podhum sopra Fiume, una Marzabotto firmata Italia del ‘42, con cento civili fucilati, incendio e deportazione dei sopravvissuti.

Sarebbe facile, ma temo che se le nostre controparti ci dicessero davvero “offriteci un pentimento un po’ più italiano”, saremmo colti da amnesia collettiva. Da troppi anni il Paese evita il nodo del pentimento; si genuflette ad Auschwitz ma sorvola sui delitti del Ventennio. Squalifica i liberatori, li trasforma in occupatori, minimizza quel regime che pure Fini ha dichiarato “male assoluto”, e anziché chiedere scusa si limita a costruire un’agiografia di “fascisti buoni” salvatori di ebrei, o dedica strade a propagandisti del Ventennio.

Ma questo crea un rischio concreto: che il 10 febbraio vada in collisione col 27 gennaio, o addirittura lo neghi. L’equivalenza criminale tra foibe e lager triestino sembra fatta per tirarsi dietro un’equivalenza politica: nazifascismo=comunismo, mali assoluti entrambi. Ma come possiamo sostenerlo senza negare proprio l’evento fondativo del Giorno della Memoria, e cioè che il 27 gennaio a entrare ad Auschwitz fu l’Armata Rossa?

Non basta. Il 10 febbraio lascia intendere che pure noi italiani abbiamo avuto la nostra Shoah. Le nostre vittime, si dice, furono “martiri”. Ma il termine indica l’accettazione della morte in nome di un’idea, cosa che non fu, tanto è vero che non viene applicato nemmeno ai morti di Auschwitz. Difendere questa parola non rischia di sminuire l’orrore incommensurabile dell’Olocausto?

Da noi tutto è soggetto a lifting, dalla faccia dei primi ministri alle leggi finanziarie: figurarsi il Ventennio. In questa cosmesi Trieste ha una funzione-chiave. Qui i liberatori dell’Est e dell’Ovest andarono a scontrarsi e la ferocia vendicativa dei primi si scatenò come sappiamo. Ciò ne fa una piazza irrinunciabile per la Destra. Il posto ideale per equiparare i partigiani ai briganti e riciclare i fascisti come difensori della frontiera minacciata dal comunismo.

Ma se questo è il fine, allora il 10 febbraio e il 27 gennaio rischiano entrambi di svuotarsi di senso e ridursi a un’autoassoluzione. In fondo la colpa dei forni crematori è tedesca, quella delle foibe slava, e dunque possiamo sempre concludere: innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani “brava gente”.

Pensiamoci un attimo. Siamo l’unica nazione europea che ha ben due giorni dedicati alla Memoria. E siamo anche gli unici a servircene non tanto per chiedere scusa quanto per esigere scuse da altri. Ma allora a che serve questo nostro 10 febbraio? A celebrare morti e confortare profughi, come è doveroso, oppure ad assolvere gli stessi squadristi che plaudirono alle leggi razziali?

L’Italia ignora che quelle leggi furono proclamate settant’anni fa proprio a Trieste ed ebbero un tragico preludio nella repressione contro sloveni e croati fin dal 1920, con diciotto (!) anni di anticipo sulla Notte dei Cristalli. E pochi sanno che i “nostri” ebrei furono portati a morire sulla base di liste tutte italiane, accuratamente redatte nel ’39 dall’ufficio “anagrafe e razza”. Perché non lo si dice chiaro?

Perché quel giorno infausto, di cui è appena trascorso il settantesimo anniversario, è stato ricordato in tono minore? Perché non s’è detto chiaro che quel tragico annuncio in piazza Unità ebbe in risposta non un silenzio attonito ma sette – ripeto, sette - ovazioni? C’è chi dice che le leggi razziste dipesero dall’influenza tedesca, ma Mussolini fu esemplarmente chiaro: “Coloro i quali credono che noi abbiamo obbedito a imitazioni – disse - sono poveri deficienti cui non sappiamo se dirigere disprezzo o pietà”.

Oggi in Italia si bruciano barboni, le ronde vanno a caccia di “musi neri”, nelle banlieues è scattata l’emergenza etnica, la presidenza del consiglio invece di unire il Paese lo spacca drammaticamente. Lo stesso Fini e parte della Destra sono preoccupati. Ma non è proprio questo che li dovrebbe obbligare a tener desta la memoria per evitare derive balcaniche al Paese? I Balcani non sono forse una tragedia etnica costruita sul cattivo uso della memoria?

Invece l’antislavismo resta un pregiudizio vivo a Nordest, e Trieste continua a essere un tappo formidabile sulla Ostpolitik italiana. Il Muro è caduto vent’anni fa, il confine con la Slovenia è caduto, ma la “svendita dell’italianità” è ancora il termine insultante con il quale certa nostra imprenditoria, per invocare protezionismi, bolla in nome della patria ogni tentativo di accordo di frontiera, lasciando così in apnea il porto di Trieste.

Non si capisce una cosa ovvia. La potenza tedesca si basa su un pilastro: l’aver chiesto scusa. È questo che ha dato credibilità all’espansione economica di Berlino a Oriente. Noi – che con tutta evidenza ci siamo macchiati di colpe minori - non l’abbiamo fatto, con la conseguenza che l’allargamento dell’Unione europea a Est va a due velocità. A Nord arriva alle porte di Pietroburgo; a Sud non arriva a Punta Salvore.

Lo chiamano ricordo, ma quante rimozioni! Non si dice che nel ’19, dopo i bei Ragazzi del Novantanove, sulla frontiera arrivarono uomini neri a portare arroganza, sopraffazione e morte. Si omette che decine di migliaia di austriaci se ne andarono da Trieste a guerra finita perché l’Italia aveva chiuso le loro scuole, dopo che Vienna aveva lasciato fiorire la lingua italiana.

Si dice che Trieste fu “redenta”, ma non aveva nulla da cui redimersi. Il porto funzionava, Vienna investiva cifre enormi nello sviluppo, la rete ferroviaria era al top. Il fascismo invece castigò l’Adriatico: la flotta passò al Tirreno e Genova con Napoli saldarano il conto della sconfitta navale di Lissa, inflitta 50 anni prima dagli istro-dalmati sotto il vessillo dell’aquila bicipite.

Perché oggi si dedicano discorsi persino ai papalini uccisi a Porta Pia, ma non agli istriani, dalmati, goriziani e triestini che morirono sul fronte russo per obbedire al loro imperatore? Per essi nemmeno un fiore sui Carpazi. Vanno dimenticati solo perché disturbano l’immagine di Trieste italianissima? Quanta storia inghiottita da un buco nero.

Giampaolo Pansa fa le pulci alla Resistenza. Benissimo. La storia va sviscerata senza paura. Il problema è che pochi fanno le pulci al fascismo. Chi parla delle repressioni nella Trieste operaia, degli assalti agli sloveni e della loro lingua negata? Chi dei cognomi italianizzati in massa, o dei lager del Duce dove tanti bambini stranieri morirono di stenti tra il ’41 e il ’43? Silenzio indecente su tutto, anche sui 300 criminali di guerra mai passati in giudicato, o sugli squadristi riabilitati nel dopoguerra.

È dal ’45 che la Destra persegue coerentemente questa rilettura. Ora ha in gran parte raggiunto il suo obiettivo. A furia di insistere ha ottenuto di fissare il Giorno del Ricordo al 10 febbraio, data del “tradimento” (il trattato di pace che ha ceduto terre a Tito) che mi pare scelta apposta per fomentare revanscismi. Nulla è più pertinace della memoria dei Vinti.

Il risultato è che oggi l’Italia accetta di celebrare le foibe evocando solo la barbarie slava e ignorando quella italiana. Onestà vorrebbe che nel gioco delle scuse incrociate si sostituisse la falsa simmetria con una simmetria autentica. Solo così il dopoguerra, a mio avviso, potrà dirsi finito sulla frontiera. Senza onestà la memoria resta zoppa, e il giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo che si vuole.

06 febbraio 2010

Adriano Sofri parla di Marek Edelman

Marek Edelman adriano sofri wlodek goldcorn ryba ludmila varsavia polonia nazismo fascismo

Giovedì 21 gennaio 2010 ore 18 alle Oblate Firenze presentazione di “C’era l’amore nel ghetto” di Marek Edelman
Con Adriano Sofri, Wlodek Goldkorn e la traduttrice Ryba Ludmila


Dalla prefazione a “C’era l’amore nel ghetto” di Marek Edelman, Sellerio -la memoria pp.180 di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri .

Marek Edelman è morto la sera del 2 ottobre 2009 a Varsavia, all’età di 90 anni. È stato lucido e attivo fino alla morte. Non è un modo di dire. Si preparava a venire in Italia. Abbiamo dovuto aggiungere queste righe iniziali quando il libro era già composto. E abbiamo deciso di lasciare le righe seguenti così com’erano, senza correggere il modo presente in cui parliamo di lui. Non per echeggiare gli slogan consolatori, «Marek è vivo», di cui avrebbe riso. Marek è morto. Ma passerà molto tempo prima che ci abituiamo alla sua assenza. Era l’ultimo, per così dire. È morto il guardiano della memoria. Tuttavia bisogna che siano altri a custodirla, come sono capaci.
C’è uno spreco e un cattivo uso delle parole e delle analogie, quando si parla della Shoah: un impiego della retorica che privilegia la metafora a scapito della vita e delle vite. Si dimentica, o si ignora, che anche nel ghetto ci si innamorava, si litigava, si faceva politica, si sognava. Si sperava in un avvenire, addirittura. Ecco: il ghetto che cos’era? L’anticamera della morte? Certo, anche. Ma era, in condizioni davvero disumane, anche una vita supplementare, una prosecuzione della vita che gli ebrei conducevano prima della guerra. E a sua volta quella vita non era stata il preludio della catastrofe, e non può esservi ridotta. Tra le due guerre mondiali, in Polonia esistevano e fiorivano teatri yiddish; si producevano – assieme agli studios di Hollywood – film sonori in yiddish; c’erano reti di biblioteche, case editrici, associazioni sportive, sindacati, partiti politici. C’era una nazione di tre milioni di persone che parlava, pensava, scriveva, sognava, faceva politica e progettava il futuro in yiddish.
Ogni anno, da decenni, il 19 aprile a mezzogiorno, Marek Edelman porta un mazzetto di narcisi gialli ai suoi amici a ai suoi compagni, alle donne e agli uomini con cui ha combattuto nel ghetto di Varsavia. C’è una piazza enorme, disadorna, a Varsavia, una piazza dove sorge quello che ufficialmente si chiama il Monumento agli eroi dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia: scolpito nella pietra che era stata portata lì per erigere un obelisco in onore di Hitler. Edelman, classe 1919, medico cardiologo, attivista dell’opposizione democratica polacca negli anni 1970, militante di Solidarnos´c´ negli ’80, impegnato in difesa di Sarajevo negli anni ’90, uno dei pochi superstiti di quell’ebraismo destinato ormai a diventare oggetto museale, o materia di ricerche dotte. La storia è finita così, e non è colpa di nessuno, se non di Hitler, dei nazisti e dei loro volenterosi complici. Ma la biografia di Marek Edelman contraddice quanti insistano a pensare che la storia doveva finire così, che l’ebraismo polacco (ed europeo, o quello diasporico in genere) non avesse alcuna via di scampo, perché destinato a perire, incapace di far fronte alle sfide della modernità.
Qui Marek Edelman racconta che cosa successe a questo mondo, a un pezzo di questa nazione, una volta finito nel ghetto. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas «come le pecore al macello». Cercarono invece in ogni modo, ciascuno a suo modo, di continuare il filo della vita di prima. Ogni giorno di nuovo affrontarono cruciali scelte politiche, esistenziali. E organizzarono la resistenza: che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. L’insurrezione durò dal 19 aprile al 10 maggio 1943! («Armata»: vuol dire un arsenale di una decina di pistole, altrettante bombe a mano, e alcune decine di chili di esplosivo, contro la potenza militare nazista!).[…]